Conosciamoci peggio

La filosofia come esercizio di insubordinazione

Uno spettro si aggira per le accademie (e in particolar modo, presso i dipartimenti universitari di filosofia). Uno spettro dal nome e dall’origine antichi: lo spettro della “servitù volontaria” (Étienne La Boétie). La ricerca, soprattutto nell’ambito cosiddetto “umanistico” e anche nella sua forma più pura, sconta una sorta di malattia ormai cronica. È ricerca in funzione di esigenze che non sono le esigenze della ricerca, che esulano dall’esigenza genuinamente conoscitiva che dovrebbe animarla. A farla da padrone, insomma, è quel fenomeno che gli psicoanalisti chiamano transfert e che Jacques Lacan ha giustamente definito come l’istituzione di un “soggetto supposto sapere”. A sapere, in breve, è sempre l’Altro, con la maiuscola a capolettera. Il sapere è dell’Altro, nel senso che è Lui a possederlo. Che questo Altro sia il passato più o meno glorioso della filosofia stessa, la discorsività delle scienze naturali, l’economia o un’alterità tanto più esotica e distante quanto più “sapiente”, non conta; conta solamente che il sapere non si trovi dalla parte di chi pure vorrebbe dire la sua. Di qui l’impotenza della filosofia contemporanea, il suo disorientamento circa la propria positiva funzione. La sua rinuncia a parlare in nome proprio è la sua auto-mutilazione. Da dove deriva allora questa attitudine di rassegnazione e di servilismo nei confronti di ogni autorità costituita e che ammala una filosofia altrimenti dedita a un sistematico esercizio di insubordinazione sin dalla sua fondazione greca?

Probabilmente, la ragione di questa mesta passività risiede nella decostruzione critica che la filosofia, con enorme coraggio, ha praticato su se stessa. Con gesto incurante della sua sopravvivenza, il filosofo dello scorso secolo ha infatti sottoposto a una critica impietosa le premesse del suo “dire”, del suo ambire alla verità, ravvisandovi non di rado l’espressione larvata e dislocata di una violenza che fa tutt’uno con quella dell’imperialismo occidentale. Il problema è che a tale lodevolissima auto-problematizzazione non è seguita alcuna fase ri-costruttiva. La filosofia è rimasta in balia del suo acume nichilistico – del suo voler abbattere tutti gli idoli. La filosofia è rimasta orfana di sé e si è consegnata deliberatamente nelle mani del potere.

Forse, a chi crede che soltanto nella tradizione (come buona parte della filosofia continentale europea effettivamente fa) sia conservata una qualche verità, o a chi confida solo nella verità scientifica (si pensi a certa filosofia cosiddetta “analitica”, di matrice anglosassone), si dovrebbe rispondere dicendo che la filosofia esiste se e solo se trascura, e anzi rifiuta, ogni transfert, ogni soggetto supposto sapere. E dunque, per una filosofia che ha saputo e voluto criticare anche la propria “volontà di verità” non resta che un solo gesto da compiere ancora, un solo gesto che, se compiuto, sarebbe forse denso di conseguenze. Farla finita con l’“amore per il sapere” (philo-sophia) e impegnarsi a essere qualcosa di simile a un potere più antico di ogni sapere, un potere tra gli altri, ma che a tutti gli altri poteri chiede il conto – che costringe tutti gli altri poteri (e saperi, quindi, che non sono altro che una forma del potere) a esibire le proprie credenziali (e cioè, la propria legittimità). Forse una chance per la filosofia si apre solo all’orizzonte di una sua politicizzazione integrale, di un suo divenire azione, da parte a parte. Un’azione diversa da tutte le altre: l’azione certo del pensare, ma di un pensare che non smette mai di mostrare l’impensato di tutte le altre azioni (finanche della propria, come azione tra le altre, come altra da se stessa, ma non solo); l’impensato che tutte le altre azioni, per essere veramente tali, non possono non portarsi dietro e che, se rivelato, le costringe a cambiare, a fare i conti con il fatto che i conti non tornano mai veramente e a mutare così le premesse del proprio agire, riuscendo magari a migliorare.

Forse è questo che intendeva Karl Marx quando, nella celeberrima undicesima Tesi su Feurbach, scriveva: «I filosofi hanno solo diversamente interpretato il mondo; ora si tratta di trasformarlo». Si tratta non tanto di “dire il vero”, ma di collocarsi presuntuosamente in un “essere nel vero”. Solamente in forza di questa previa operazione, grazie a questa singolare postura di chi “presume di sapere”, è possibile infatti cambiare il mondo (anche quel mondo che è il mondo attuale degli studi filosofici), piuttosto che limitarsi a conoscerlo, a contemplarlo stolidamente. In fondo, la filosofia non ha mai fatto altro. Si tratta di rifarlo, di rinnovare quel gesto.

 

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Daniele Poccia

E' nato nel 1983 e da bambino voleva fare lo “scienziato”. A sedici anni però, come altri a questa età, incontra la filosofia e si innamora. Negli anni successivi, prenderà una laurea in quella materia (alla Sapienza di Roma) e comincerà un dottorato (tutt’ora in corso, tra l’Università del Salento e la Sorbona di Parigi), prestando particolare attenzione alla forma più pura dell’esercizio filosofico, ma anche a discipline come la filosofia della scienza, della tecnologia e l’estetica. Tra i suoi interessi principali, il cinema, la musica afroamericana e la letteratura di ricerca lasciano pensare che molto debba al vecchio secolo XX, ma la sua attenzione si rivolge sempre di più ai fenomeni del contemporaneo. Tra le altre cose, partecipa alle attività del comitato post-sisma ‘3e32’, nella sua città natale (L’Aquila), e collabora da un po’ di tempo con la cattedra di Filosofia Teoretica del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi dell’Aquila. Ha scribacchiato qualche saggio e tradotto dal francese alcuni pensatori, più o meno noti.

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