Non è un mondo per vecchi
Michel Serres non lo conosco. Leggo che si tratta di un filosofo francese (quindi chiedete a Daniele Poccia, che saprà tutto di lui), il quale, a 86 anni (che longevi però questi filosofi!), ha scritto un libro intitolato “Non è un mondo per vecchi”, ma non per tirarsi fuori dai giochi, anzi! Se la sintesi proposta da Vanity Fair, celebre agorà di spiriti inquieti, non mi inganna, egli sostiene che le generazioni del secondo Novecento, a partire dalla sua, sono state più fortunate di quelle precedenti, per esempio per aspettativa di vita, assenza di guerre “vicine” (quelle lontane, chi se ne frega!), qualità (e quantità) delle risorse alimentari e così via. Ma va? Deve essere vero, lo diceva pure mia nonna, che di guerre ne ha sfiorate due, a parte quella “fredda” e gli anni di piombo, anche se poi non poteva sfuggire alla nostalgia dei buoni tempi antichi. Serres si riferisce, credo, al mondo occidentale, anzi, da bravo francese, proprio alla Francia e si basa, in fondo, su dati statistici (l’unica fonte di pensiero che ci resta?), in accordo con la sociologia del vecchio, ma sempre in gamba, positivismo…
Non voglio discutere di un libro che non ho letto, e non sarei neppure il primo a farlo, e che forse per scrupolo proverò a leggere. Voglio invece, sempre basandomi su un criterio metodologico empirista, ma più grezzo ed immediato, raccontare qualche frammento della mia esperienza diretta, per lo più con i giovani. Si tratta, più che altro, di brandelli, temporaneamente sottratti al fluire e conservati, finché dura, in una memoria sempre più labile ed affollata. Nessuna ambizione di significati simbolici, in essi. Magari, sono fili della trama.
Ecco, dunque. Mio figlio di cinque anni (non è un mondo per vecchi) ogni tanto mi chiede e si chiede, manco fosse Berkeley o Shakespeare, se “il mondo intero proprio” non è che un sogno, o la metafora di un sogno (va bene, non in questi termini…). Io non rispondo, ci mancherebbe. In questo momento, però, è assorto di fronte al tramonto e decide, fotografandolo con il Nintendo, di prolungare un poco la meraviglia, felicemente sospeso tra il mondo delle idee e la tecnologia divenuta “techne”, capacità di accogliere il senso della bellezza nella memoria e nell’innocenza. La comunicazione, il “contatto” è fuggevole, la “scrittura della luce” rimane mistero e magia, appiglio per credere nella realtà.
Di fronte al posto dove lavoro, invece, ogni mattina, per molti giorni, ho visto, senza volerlo, una macchina con una giovane donna e un giovane uomo, invariabilmente parcheggiata dietro alla mia. Loro, dentro, per qualche tempo si sono scambiate effusioni, per quanto ne so senza sconfinare nell’osceno. Finché, un giorno, li ho visti digitare freneticamente sui cellulari, entrambi, in contemporanea. Da allora, non sono più comparsi: forse si erano comunicati, attraverso uno strumento che colma o rende abissali le distanze, una decisione che neppure una parolaccia, o un bacio, possono comunicare.
Talvolta, mentre mi arrampico sul divenire o mastico sillogismi tortuosi, vedo teste chinarsi sotto i banchi. So bene cosa succede: l’amico è lì, connesso e vigile, per trasportare i pensieri, o quel che resta, altrove. Eppure, certe volte avviene il miracolo: non so quale parola posso aver detto, in qual modo il tono della voce possa aver violato la temporanea incoscienza. I volti si sollevano, gli occhi si accendono perfino, il piccolo quadrante luminoso rivela la sua vacuità e sorge il bisogno di interrogarsi, di sentirsi vivi e parte della vita.
Ora sputatemi addosso (“in senso metaforico, si intende”, chiosava Francesco Guccini in qualche versione dal vivo dell’Avvelenata): ma io credo nei giovani, tanto varrebbe, altrimenti, appendere il cervello e il resto della carcassa al classico chiodo. Credo nei giovani, quando son pronti a trasformare gli strumenti (ogni strumento) in arte, sostanza vitale dell’uomo che non aspetta di mutarsi in robot.