Quando avevamo trent’anni di meno
Come si scrivono le prime pagine sul decennale di un terremoto? Come si scrivono quando dietro di te c’è quasi un genere letterario, centinaia di libri, articoli, documentari, film, fiction per quello che forse, insieme all’11 settembre, è uno dei disastri più documentati della storia? Soprattutto chi scrive deve avere una grande presunzione, oppure una grande necessità di condivisione di sentimenti, per credere che di parole sull’Aquila post sisma vi sia ancora bisogno. La città è tornata sotto gli occhi del mondo, ancora di più lo sarà nei prossimi giorni e per la sua nuova settimana di offese e gloria mondiale, si mostrerà, come i suoi cittadini, ancora con finta verginità, pudore ed innocenza, ma con una volontà altezzosa e forte di esporre se stessa. Nasconderà i suoi lati bui, le piccole e grandi disonestà annidate nelle scale dei condomini, negli egoismi e nelle falsità che ne hanno avvelenato i pozzi in questi anni e mostrerà quanto di buono è riuscita a ricreare e chi guarderà con occhio speranzoso riuscirà a vedervi un futuro.
Nel paese delle sfumature tutti cercheranno il bianco o il nero, usando ad arte le lacrime e i sorrisi onesti, ma ogni storia ha infinite variabili e pensare di etichettare il decennio passato con un più o un meno è, per chi lo ha vissuto, un esercizio storicistico complesso, da lasciare forse più al lavoro del teologo e del filosofo, che dello storico, nella ricerca dei segni del bene e del male, vecchia come l’uomo, la religione, la ragione.
Chi scrive sente però oggi la necessità di sospendere il giudizio, interrompere le risse di fazione e lanciare una sfida generazionale, per affrontare quella che doveva e potrebbe ancora essere, la più grande rigenerazione urbana del dopoguerra in Italia.
Per farlo occorre avere quarant’anni e pensare al lato bianco della tela, ad una città vivibile, con le montagne e i boschi d’intorno, con un ecosistema ancora tale, con due università, una storica che appare tornare ai vecchi splendori ed una nuova già specchio di una rinascita culturale d’eccellenza. Occorre pensare alla città delle aziende sane nel farmaceutico, nella ricerca, nell’aerospaziale, alla città dei luoghi dello stato, alla città che può e deve avere speranze.
Occorre pensare alla città che vorremo tra vent’anni, quella in cui noi quarantenni ci appresteremo a coltivare l’arte di essere nonni, quella in cui i nostri figli che avranno vissuto le esperienze del mondo globale, positivo e interconnesso e avranno deciso di restare, se la riconosceranno come propria, ringraziando chi gliel’ha ricostruita e preservata.
Per farlo dovremo mettere da parte l’idea di città che abbiamo noi, a misura delle nostre vecchiaie, chiedendo aiuto alla fantasia e l’ingenuità dei figli, per costruirla davvero come potrebbe piacere a loro e non come piace a noi.
Potremmo farlo prendendo spunto dai colori più belli visti in città di recente, il bianco candido e il verde del ragazzi che hanno partecipato al primo “friday for future”, gli unici paragonabili ai rosei tramonti aquilani ispiratori di poesie e ai cieli blu d’ottobre dopo la pioggia.
Dieci anni sono passati, accidenti se sono fuggiti, probabilmente guardandoci indietro sono stati per molti anni intensi, facendo il conto della vita straordinaria vissuta, in negativo e in positivo, equivalgono per ognuno a molte vite piene, ma è ora di lasciarli andare e pensare ai prossimi venti, perché alla fine, nascosti i dolori, che riemergeranno sempre, restino i vecchi e i nuovi luoghi della memoria individuale e collettiva e rimanga, di una città, non una memoria nostalgica, ma una speranza e un sogno, affinché tra vent’anni ci si possa ricordare di quel 6 aprile 2009, quando avevamo trent’anni di meno e qualcosa di antico finì, lasciando il posto a qualcosa di nuovo e mai visto.