Il capitalismo contemporaneo e la nuova politica
Nel momento in cui la logica del capitalismo si realizza, si annienta come tale. La previsione marxiana relativa all’auto-destituzione della produzione capitalistica è più che mai attuale – solo, si verifica in forma imprevista. Il capitalismo sta morendo, ma lo fa a macchia di leopardo, per sussulti improvvisi, crisi localizzate, blocchi più o meno puntiformi. Il capitalismo non è più improntato al momento della produzione di merci, ma nemmeno a quello del loro consumo – com’era sino a qualche anno fa. Oggi conta soltanto la circolazione, una circolazione in cui uomini, oggetti e quant’altro sono rigorosamente sullo stesso piano. La circolazione è la valorizzazione: tutto ormai, circolando, si comporta alla stregua di quel «valore universale» che è il denaro. E quando questo accade, quando tutto ormai si limita a circolare, secondo un ritmo che, almeno tendenzialmente, non prevede arresti, il criterio esclusivo del profitto viene meno, per lasciare spazio a un’altra dinamica, fondata ora sulla gestione.
Il problema caratteristico del capitalismo contemporaneo non è più, insomma, come aumentare la produzione di valore economico – necessariamente a favore di pochi. Né tantomeno, come è stato per una breve fase: quella del Secondo Dopoguerra nello scorso secolo, provvedere a una ridistribuzione parziale delle ricchezze (condotta soprattutto, come è stato più volte notato, per contrastare l’avanzata del socialismo reale). Oggi si tratta innanzitutto di innescare un movimento che, se non è perpetuo, è solo perché le leggi della fisica lo impediscono. L’emergenza del terrorismo internazionale – di matrice soprattutto islamista – non è, da questo punto vista, un fattore in contrasto con quanto appena detto. Anzi, esso è l’innesco di un’evoluzione del capitalismo che, da logica economica, diventa primariamente una forza politica, di ri-organizzazione dello spazio pubblico. Di fronte alla minaccia di attentati imprevedibili, il Capitale si dedica alla mappatura delle nostre società che afferma, d’altra parte, di voler proteggere. È la celebre svolta securitaria che si realizza nei paesi dell’Occidente – e non solo in essi.
Sarebbe un errore, allora, credere che questa fase sia ancora una fase genuinamente capitalistica. La forma globale dell’economia su cui il Capitale attualmente si basa contraddice in via di principio la legge fondamentale che la domina: l’esistenza, al di là dei suoi confini, di zone non ancora colonizzate, non ancora convertite alla sua forma di produzione (che queste zone siano poi dei territori geografici reali o aspetti della vita umana ancora sottratti alla valorizzazione economica, poco importa). Non c’è più un esterno, un “fuori” del capitalismo, un dominio di «accumulazione originaria», come lo definiva Marx. Tutto è assoggettato alla sua regola di fondo – e cioè, all’assenza di regole come via regia del profitto. Ma questa è ancora una regola ed è una regola che, nel momento in cui si generalizza, collassa su stessa, produce con un cortocircuito il suo opposto radicale: l’impossibilità di trovare delle regole, foss’anche quella concernente l’assenza di ogni regola e che come tale non si lascia più dialettizzare.
Il funzionamento intimo del capitalismo è sempre stato dialettico – capace insomma di assorbire i momenti polemici, di contestazione, per farne il punto di partenza di un suo interno rinnovamento. Ma c’è un limite a ogni movimento dialettico – il limite costituito dall’impossibilità di dedurre l’esistenza dal concetto, di prevedere sin nei minimi dettagli l’evoluzione del reale che, a conti fatti, è sempre fuor di conto, un poco traumatico. Detto in maniera più semplice, la realtà supera inevitabilmente e continuamente l’immaginazione. L’assenza di regole generalizzata diventa la regola più ferrea e intollerabile e genera una forza contraria – una ‘sregolatezza’ sistematica – così intensa da essere, in ultima analisi, irresistibile.
Il terrorismo non è che un esemplificazione di questa traumaticità dell’esistente, che oltrepassa sempre il tentativo di ricondurlo a uno schema cognitivo predittivo, capace di anticipare effettivamente sull’esito delle cose. Per fermare l’avanzata di questo pericolo, allora, il capitalismo deve arginare i suoi stessi dispositivi, porre un freno persino alla circolazione delle merci – innescare al suo interno (visto che non c’è più un esterno) una contraddizione che prima trovava fuori di sé. Una contraddizione che, a lungo andare, sfugge alla presa di una sua riconversione in positivo. È la contraddizione pragmatica e non meramente logica tra il piano di ciò che esso afferma (nella fattispecie, organizzare la sicurezza della Città) e ciò che di fatto fa – alimentare con i suoi stessi mezzi, per ragioni economiche: la circolazione, l’espansione del pericolo terroristico.
Ma nel momento in cui il capitalismo si riorganizza intorno a un criterio più politico che economico ridà forza, quasi inavvertitamente, alla Politica stessa – né rifà un attore efficace nel reale, da esautorata che era. La nuova politica, se sarà, non potrà però essere analoga a quella attualmente in vigore, basata sull’esigenza di sorvegliare e direzionare i flussi della circolazione. Se sarà, sarà una politica dedita non tanto a gestire ma a decostruire l’eccessivamente organizzato, a indebolire la concentrazione di flussi (materiali e informatici) che caratterizzano il mondo contemporaneo. Sarà una politica, insomma, la cui unica possibilità si gioca sulla costruzione di piccole comunità che, al contrario delle grandi, non temono la minaccia dell’imprevedibile, ma vivono in costante prossimità con essa. Se il capitalismo come tale non può forse mai morire del tutto, muore nondimeno la sua ambizione a essere il Tutto.